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Cucina Latina: Malbec Argentino, il miglior vino rosso del mondo

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Questo vitigno fu impiantato in Argentina nel 1853 (foto: la rete)

Questo vitigno fu trapiantato in Sudamerica nel 1853, grazie all’agronomo francese Michel Aimé Pouget in fuga da Napoleone III (foto: la rete)

PARIGI – 3500 vini in concorso provenienti da 41 paesi diversi e 150 giurati, dai nasi forse arrossati ma dall’olfatto sopraffino: ad aggiudicarsi il Gran Trofeo di “Miglior Vino Rosso Secco del Mondo” è nientemeno che il “Malbec 2012 Famiglia Bianchi” di San Rafael, Mendoza, invecchiato per un anno in quelle botti di rovere capaci di correggere qualsiasi imperfezione e dare al vino quel lungo finale che strega il palato e ammalia la bocca.

Il vino argentino sul tetto del mondo dunque: non è un caso, ci azzardiamo a dire, dati i premi che le cantine del paese, famoso da sempre per le sue carni bovine, riscuotono con regolarità e costanza da oltre dieci anni nelle competizioni vinicole attorno al globo. Una nota di merito non da poco: per ora, il vincitore lo potete trovare sugli scaffali di Buenos Aires a 96 pesos la bottiglia, più o meno 10 euro.

Mal Bec: “mala bocca”, o più romanticamente, “bacio cattivo”. Questa l’ingrata etimologia francese della varietà di vino più in voga sul Rio de la Plata: al degustarlo, gli intenditori vi incontrano aromi di prugna, uva passa e more, lo descrivono ricco di tannini ma non aggressivo al palato, dal gusto “rotondo” ed “elegante”, con note di cacao, vaniglia, caffè o rovere affumicato a seconda delle annate: molto più umilmente, Pangea vi consiglia di perdervi nel suo intenso colore violaceo, che potrà suggerirvi verità insperate quando accompagnato in quantità a carni rosse, cotte ma non troppo, meglio se al sangue.

Colpito a metà ‘800 dalla piaga della filossera – detta volgarmente “la mosca d’oro” – questo vitigno, che oggi sopravvive in piccole percentuali nella zona di Bordeaux e nella regione pirenaica di Cahors, viene trapiantato in Sudamerica grazie all’opera di Michel Aimé Pouget, eclettico agronomo francese repubblicano in fuga dal dispotismo di Napoleone III: arrivato a Santiago del Cile nel 1853, durante i suoi esperimenti e peregrinazioni introduce nell’area di Mendoza (a pochi chilometri dalla frontiera cilena) niente meno che l’ape del miele – Apis Melliflua Ligustica – originaria della zona mediterranea, prima di dedicarsi alla coltura di frutta e uve quali Cabernet – nelle sue varietà Sauvignon, Frank e Blanc – Chardonnay, Pinot Gris, Merlot, Tannat, Shiraz, e naturalmente, Malbec.

In un clima secco e desertico – caldo di giorno e freddo di notte – l’uva Malbec trova finalmente su questo versante delle Ande il suo terreno ideale, argilloso e sabbioso: la carenza di precipitazioni viene rimpiazzata da un irrigazione calibrata meticolosamente, effettuata con l’acqua pura che dai ghiacci scorre fino alla placida Mendoza, dove ai bordi di ogni strada scorrono i piccoli canali detti acequias – di origine araba e caratteristici del sud della Spagna – responsabili della rigogliosa vegetazione che miracolosamente avvolge la città. Sotto le fronde degli enormi pioppi – alamos in castigliano, da cui il nome dei viali alberati, alamedas – si rifugiarono nel 1861 i Mendocinos in fuga dal terremoto che uccise più di 6000 persone: fu proprio osservando che la terra era rimasta stabile in prossimità degli alberi che la Ciudad Nueva venne ricostruita sullo schema attuale.

Vino e olio d’oliva: sorvegliata dal brillante Cordon del Plata, la Valle dell’Uco è la culla dei prodotti mediterranei per eccellenza, dove il bianco delle nevi non turba i colori vivaci di un autunno sorprendentemente caldo. Dopo esperimenti e intuizioni lungimiranti al principio degli anni ’90, sufficienti a lanciare la voce di un nuova frontiera vinicola a sud del Tropico del Capricorno, la crisi statunitense del 2008 ha favorito la riscoperta di questi luoghi assopiti, con i loro rumori ovattati dall’altitudine e i ritmi di vita saggi e pazienti, adatti a conciliare il sonno del mosto nelle botti di rovere.

Oggi, centinaia di bodegas di ogni dimensione si spartiscono un territorio storicamente arido, la cui produzione, fino a qualche decennio fa, si limitava al rude vino Carlón, aspra eredità della dominazione spagnola, più adatto a caraffe di terracotta o al tetrapak che ai sugheri delle bottiglie d’annata. I flussi d’immigrazione piemontese, veneta e friulana si riflettono ancora nei cognomi di alcune rinomate cantine, come la Cecchin, leader nella produzione di vini organici privi di solfiti, e la Michelin (da leggersi non “Mishlén” come i pneumatici, ma Michelìn, come il leggendario consumatore di grappa della umida Pampa Padana).

I Bianchi, dal canto loro, sono però originari di Fasano, provincia di Brindisi, e la loro cantina è datata 1928, anno in cui il capofamiglia Don Valentino – a cui oggi è intitolato il popolare “Don Valentin Lacrado”, dignitoso rosso reperibile in tutti gli alimentari portegni – riuscì a coronare il sogno di una vita dopo essere stato operaio ferroviario, aver fatto il rappresentate di mobili, macchine agricole e camion, e aver fondato una linea di autobus con cui coprire le polverose distanze della provincia di Mendoza.

Insomma, dopo il calcio, le donne e la carne – risparmiamo al Papa di comparire in simile compagnia –  è giunto il turno, se non l’epoca, del vino argentino: gli argomenti di vanto dei compatrioti di Monzòn e Maradona si contano sulle dita di una mano, ma sono assi difficili da battere, un poker con cui sedersi al tavolo verde sapendo di avere la vittoria in tasca. Se poi si perde pazienza, le consolazioni non mancano di certo: se non le donne, troppo belle per restare al fianco di chi perde tutto all’ultima mano, per lo meno carne e vino. Rosso, corposo e a buon mercato.


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